Forse siamo proprio arrivati alla frutta. E poi, che cosa rimane?
Credevamo di averne viste abbastanza, eravamo convinti che la velinomania, la febbre dello sculettare in body davanti alle telecamere, dell’apparire (in video) ammiccanti e seduttivi non c’azzeccasse nulla con il sangue e le tragedie. Ci arrogavamo il diritto di possedere la verità, unica e insindacabile, sui confini tra ciò che è la vita e ciò che è la morte. E tra ciò che è informazione e ciò che è intrattenimento, gioco, saltellante e piroettante divertissement.
E invece la vicenda, terribile, della povera Sarah Scazzi, ha portato in trionfo le gesta di un’umanità nuova. Un’umanità che piange in diretta la scomparsa di una parente, stando bene attenta però a non distogliere lo sguardo dall’obiettivo, cercando con bramosia la lucina rossa della camera accesa, manco fosse una conduttrice o una televenditrice. Un’umanità che, nei servizi giornalistici confezionati a uso e consumo di sé stessa, indugia sbavante e morbosa negli anfratti più intimi delle vite degli altri.
Un’umanità senza arte né parte che scambia la propria dignità con i cinque proverbiali minuti di notorietà. Un’umanità, infine, che per mesi, come ha recentemente scritto Curzio Maltese, “ha dato vita a uno sceneggiato televisivo dove tutti, protagonisti e comparse, hanno recitato una parte seguendo un copione da sceneggiato o da serata di Amici”.
Quello visto ad Avetrana è solo uno dei volti della videocracy, di questa dittatura postmoderna che dopo essersi intrecciata, aver penetrato e ricoperto la vita quotidiana e il cosiddetto “tempo libero” della collettività, si insinua ora nella cronaca nera. E’ l’”homo videns”, come lo chiama il politologo Giovanni Sartori, il carnefice-vittima di questa videocrazia, un uomo sbocciato con la nascita della televisione, dei mass media, dei cellulari, di internet e dell’interattività. Ormai nelle nostre case – sostiene Sartori nel saggio del 2007 “Homo videns. Televisione e post pensiero” – schiere di homini videns guardano sempre più ore di televisione, contribuendo così a produrre isolamento e ad erodere la capacità sociale di un individuo (perché la televisione è pur sempre un mezzo d’intrattenimento e d’informazione passivo che, talvolta, può pure essere diseducativo). Il video modifica i codici genetici dei nuovi individui: potrebbe sembrare una evoluzione della persona e invece, nella realtà, è una delle peggiori degenerazioni e regressioni che l’uomo abbia mai compiuto.
Giovanni Sartori “Homo videns. Televisione e post pensiero” Economica Laterza
A differenza dell’homo sapiens, capace di decodificare i segni della natura e di elaborare concetti, l’homo videns non è portatore di un pensiero ma è uno spettatore di immagini e di video. La sua attenzione è governata (è comandata) e ciò è causa e conferma di una vera e propria ignoranza: ergo, un popolo ignorante è la materia prima di cui vuole disporre chi ha interesse a manipolare la gente.
E allora largo al turismo dell’orrore, costituito da quegli imbecilli che si recano a vedere e fotografare le vie, il garage, il campo, il pozzo tra Avetrana e San Pancrazio Salentino. E allora largo alle interviste vendute in esclusiva a questa o a quella testata giornalistica (non si sa mai che dal male possa nascere il bene, si saranno detti…e il bene, ovviamente, sono le mazzette di bigliettoni da 100 euro), alle lettere strappalacrime vendute così, con leggera ingordigia, ai giornali, alla smaniosa ossessione di sapere che cosa si dice di sé, come è andata l’intervista. Ma non è finita.
Gli sciacalli hanno nidiato per bene ad Avetrana. Ed allora ecco il perito che cerca di piazzare le foto del garage, l’avvocato che parla solo a pagamento (“Qual è il problema? Lo fanno tutti, non capisco perché non dovrei farlo anche io. Alcune trasmissioni pagano, è vero, ma bisogna saperci fare»), il fratello che chiede soldi ma, sottolinea, per una “giusta causa”, la mamma che apprende la notizia del ritrovamento del cadavere della figlia dalla voce asettica della giornalista tivù (mentre le telecamere indugiano sul suo volto pietrificato); le troupe, accampate in ogni angolo del paesino, pronte ad accendere in ogni istante le luci di questo rivoltante circo mediatico, di questo reality show in esterni.
Da una simile vicenda l’informazione ne esce, diciamoci la verità, con le ossa a pezzi.
Per mesi ha tritato, impastato, inghiottito, digerito e sputato un boccone avvelenato imponendolo come apertura di tutti i telegiornali. Le altre notizie, di conseguenza, vengono collocate in secondo, terzo, quarto piano in quella scala gerarchica rappresentata dai palinsesti, divenendo così – erroneamente – meno importanti.
Ma come abbiamo fatto a precipitare così in basso? E quando abbiamo cominciato?
Il pensiero di molti, guardando la “macelleria mediatica” consumata in Puglia, è andato a quella calda estate di quasi 30 anni fa quando, per la prima volta, le telecamere – tante – si sono precipitate a Vermicino, nel territorio di Frascati, per assistere in diretta al recupero del piccolo Alfredo Rampi, finito in un pozzo artesiano il 10 giugno 1981 e morto pochi giorni dopo.
Per la prima volta lì, in quell’Italia ancora non geneticamente modificata dai media, la televisione aveva mostrato per 18 ore consecutive il lavoro dei soccorritori, le lacrime dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, la sofferenza silenziosa della mamma e degli abitanti del paesino.
Allora il Paese era meno smaliziato di oggi: lo ricorda ancora Maltese quando scrive “Ai tempi di Vernicino, la gente del paese evitava le telecamere, per rispetto alla vicenda. I pochi che si facevano intervistare rispondevano con poche parole, cercando in giro lo sguardo degli altri, tentando di trattenere le emozioni. La madre di Alfredino fu sospettata perché non piangeva mai in diretta”. Quella voce, che dal fondo del pozzo si faceva via via più flebile con il trascorrere delle ore, spaventava, turbava. Impietosiva l’Italia.
Oggi, invece, il sangue in televisione eccita. È capace di stanare gli istinti più bassi e attuare, al contempo, un rito destinato a ripristinare quella coesione sociale che la morte violenta – specie di un giovane, specie per mano di un famigliare, di un partner, di un vicino di casa, di un’amica – ha violato.
Lo abbiamo visto e rivisto nel lindo salotto di Bruno Vespa. I fiotti di rosso carminio, i particolari più raccapriccianti, i plastici, le ipotesi, le opinioni e i dettagli più morbosi fanno audience. Perché è il delitto, ora, la merce da dare in pasto agli spettatori.
Così è stato per la vicenda di Samuele Lorenzi a Cogne; per quella di Chiara Poggi a Garlasco o della studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia; per la strage di Erba, in provincia di Como.
Il raccontare l’omicidio, la violenza, lo scavare fino a raschiare il fondo di questo malsano barile, sono operazioni utili a distogliere l’attenzione da altre notizie (meno gradite da chi detiene il potere) e a creare una agenda setting delle priorità. Ma sono anche operazioni che evidenziano come, nel nostro Paese, la cronaca nera viaggi ben salda su binari di perversione necrofila, di ossessione e insistenza sul particolare (pensiamo a quando lo zio Michele aveva rivelato le violenze compiute sul corpo senza vita di Sarah) che vengono amplificate proprio dal medium.
Detto ciò, direi che è arrivato il momento di fermarsi un attimo e riflettere.
Questo tipo di informazione, tanto più perversa quanto più spettacolare – e per giunta proposta in un flusso continuo – non produce che una cosa, una sola: un pubblico che si nutre di perversioni. Questo dovrebbe essere ormai chiaro a tutti. E dovrebbe essere chiaro anche il fatto che, queste perversioni, il pubblico finisce per adottarle nella propria quotidianità, nelle interazioni sociali, contribuendo in questo modo a costruire una società sicuramente coesa ma fondata sulla spettacolarizzazione del perverso. E niente di più.
[…] videocrazia, vita quotidiana, vite degli altri, volto pietrificato, your plus communication Notte Criminale Post Published: 08 novembre 2010 Author: aggregatore Found in section: Notizie e […]